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IL SILENZIO
(SOKOUT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 gennaio 1999
 
di Mohsen Makhmalbaf, con Tahmineh Normatova, Nadareh Andelahjeva (Iran - Tagikistan, 1998)
 
Il regista Mohsen Makhmalbaf
Trionfatore in tanti festival grandi (Kiarostami a Cannes...) e non solo piccini, il cinema iraniano comincia a crederci un po' troppo? È il sospetto che già ci aveva attraversato la mente quando la simpatica ragazzina che si perdeva nel bus di LO SPECCHIO di Jafar Panahi conquistava una delle spesso compiacenti giurie di Locarno, assicurandosi il Pardo d'Oro dell'edizione 1997. Ed è un sospetto che arrischia di radicarsi quando si osserva cosa riserva alla sua fiaba un nome tra i più prestigiosi di quella scuola. Una storia non solo encomiabile, ma pure - sulla carta - espressivamente molto stimolante: quella di Korshid, apprendista liutaio cieco che rifiuta - magari soltanto turandosi le orecchie - di lasciare invadere la propria solitudine, ma pure la propria intimità dai rumori, la vanità delle parole, la volgarità della città che lo assedia.

Anche se viene da chiedersi se un cinema cosi sensibile come quello dell'Iran potrebbe finalmente occuparsi non solo di pur affascinanti ragazzini, non è tanto l'esilità dell'aneddoto che arrischia d'irritare: poiché su degli schemi di semplicità disarmante, qualcuno come Kiarostami è sempre riuscito a costruire delle riflessioni morali e delle intuizioni poetiche straordinarie. Ma, piuttosto, il discorso è quello di sempre: non è tanto cosa si racconta, ma "come" lo si racconta.

E lo stile dell'autore di opere ragguardevoli come GABBEH, SALAM CINEMA o IL CICLISTA si fa più che discutibile. Come definire altrimenti una faccenda, cosi delicata dall'essere mistica che si trasforma in una ricerca del solito pùm, pùm, pùm beethoveniano della Quinta: ritornello che ossessiona il nostro boccoluto ragazzino poiché gli ricorda il bussare alla sua porta del padrone di casa che esige la pigione impagata? Ma, soprattutto, come giustificare tutto quel Tagikistan di maniera, fatto di riflessi dorati, controluce compiaciuti, destrieri sguazzanti al rallentatore: tutta la sottolineatura di una "poesia" etnica strappata al folclore, quando invece la delicatezza della metafora gridava disperatamente per la semplicità e la purezza?


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